III

Il noviziato teatrale del Goldoni

Questa esperienza umana, questo modo di sentire la vita, cosí storico e personale, si attuò artisticamente nelle commedie. E se occorre precisare come la viva, vera esperienza teatrale, il contatto con il teatro dei comici di professione fu essenziale a distinguere la vitalità e la sicurezza dell’opera goldoniana (e la sua nascita non da una solitudine libresca, ma da un contatto con il pubblico piú vario e dunque ancora da un’attenzione al «mondo», non ai piccoli gruppi di letterati) dalle incertezze dei commediografi arcadici (di cui pure egli utilizzò, specie nella direzione non classicistica, i preziosi suggerimenti di dialogo, gli spunti «riformatori»), bisogna anche ben ricordare che questa esperienza teatrale non mancò di appoggiarsi sulla viva, istintiva esigenza goldoniana di vita nell’opera letteraria, sul suo istinto di attenzione alla realtà umana. Sicché, nello svolgersi dell’attività goldoniana, l’esperienza del teatro avrà un’importanza eccezionale, ma sempre funzionale alla maturazione del poeta, al trasformarsi della sua «attenzione» in «simpatia poetica» per la realtà umana e sociale, e sempre piú diverrà un mezzo dominato e utilizzato, con sempre maggiore sicurezza, in funzione dell’espressione del suo mondo poetico.

È quindi inaccettabile uno schema che veda un Goldoni prima tutto «teatro» e poi «vita poetica nel teatro», e piú giusto è rivedere il suo svolgimento come un approfondimento del suo mondo poetico nel progressivo trasformarsi della sua esperienza vitale in sentimento poetico sempre piú profondo e sicuro e nella progressiva assimilazione dell’esperienza teatrale (già inizialmente legata alla essenziale disposizione della personalità goldoniana, ma certo in principio piú forte e suggestiva), ai fini di una espressione sempre piú personale e sempre piú poetica.

Certo il poeta «di teatro» si farà sempre piú poeta «nel teatro», ma evidentemente bisognerà evitare tagli troppo recisi, poiché l’esperienza teatrale continuerà a svolgersi ed arricchirsi anche nelle sue opere piú mature e poetiche e cosí d’altra parte anche nella fase iniziale, piú legata al «mestiere» ed agli effetti teatrali, non manca una radice di poesia, una giustificazione ispirativa di quella attività.

Il Goldoni amò nei suoi Mémoires rivedere la propria vita come una missione teatrale e la sua fanciullezza ed adolescenza come un progressivo chiarirsi della sua vocazione comica, testimoniata dalla sua stessa natura, simboleggiata persino dal parto quasi indolore della madre. In realtà la sua esperienza teatrale piú impegnativa è tutt’altro che precoce (e tutto il suo svolgimento ha un ritmo assai lento ed egli raggiungerà il culmine della sua arte dopo i cinquant’anni!): prima la volontà di riforma poteva nascere, nella sua concreta direzione, solo dopo il contatto con il teatro professionale, con il pubblico; e questo primo avvicinamento alla attività dei commediografi di primo Settecento ed ai programmi arcadici, mentre è utile a sfatare la leggenda di un Goldoni totalmente ignorante e mestierante ai suoi inizi, deve essere valutato con molta limitazione quanto a vastità e profondità della sua cultura drammatica e, ancor piú, quanto ad un’assurda preesistenza in lui di un chiaro programma precedente alla sua prima attività nelle compagnie dei comici di professione.

Quella prima orecchiata conoscenza di problemi teatrali arcadici e quella prima esperienza dilettantesca lo portarono comunque, quando venne a contatto con la compagnia dell’Imer e cominciò a scrivere per i teatri del Vendramin, a mostrare certe esigenze di regolarizzazione e moralizzazione che in qualche misura si possono rilevare già nelle sue prime opere teatrali.

Il periodo del suo noviziato teatrale è caratterizzato da una serie di esperienze piuttosto diverse ed eclettiche, in cui il Goldoni, senza profonda coscienza delle difficoltà da superare e dei risultati propostisi, affrontò temi tragici ed eroici, provò la forma del melodramma serio e dell’intermezzo e melodramma giocoso mentre scriveva numerosi componimenti poetici di occasione iniziati già nel periodo pavese nel ’23 e prove di una cultura letteraria piuttosto dilettantesca (incerta fra moduli arcadici poco precisi e residui baroccheggianti rafforzati da riprese di oratoria sacra nei noiosi «quaresimali in capitolo») in cui pure qua e là irrompono certi improvvisi movimenti comici o grotteschi, spia della sua piú naturale ispirazione.

Le sue tragedie (Belisario, Rosmunda, Griselda, Don Giovanni Tenorio o sia il dissoluto, Rinaldo di Montalbano, Enrico Re di Sicilia, Giustino), scritte tra il 1734 e il 1738, mentre sono una chiara prova di una totale mancanza della vocazione tragica nel Goldoni, ci possono soprattutto interessare come documento del suo ingresso nel mondo del teatro in una mescolanza di aulico e popolare assai significativa per limitare la posizione iniziale del Goldoni, incapace di avere un suo tono, una sua misura, e inteso a comporre, in forme piú regolari e razionali (ricerca del verisimile, del decoroso, dell’unità di luogo e di tempo), e tuttavia adatte ad un vasto e vario pubblico, trame offertegli da scenari (è il caso del Belisario del 1734, in cui egli sviluppò e regolarizzò uno scenario datogli dall’attore Casali) o da tragicommedie di mestieranti o di romanzi secenteschi (il caso della Rosmunda del 1735, in cui egli riprese un romanzo del Muti) o da melodrammi che egli cercava di rendere efficaci teatralmente anche senza l’aiuto della musica e della scenografia (ed è il caso della Griselda, ripresa da un melodramma dello Zeno, e del Giustino, derivato da un melodramma del veneziano Beregani).

Era una prima incerta prova, su di un terreno per lui tanto poco propizio (quello della tragedia), di sostituire alle risorse e alle lusinghe del mirabile, del sorprendente, del macchinoso e del buffonesco, inserito a contrasto in schemi tragici ed eroici, quelle dell’azione unitaria ed organica, della coerenza e verisimiglianza dei personaggi.

E se si prende il Don Giovanni Tenorio, in cui egli affrontava uno degli scenari piú celebri della commedia dell’arte (Il convitato di pietra), si vede subito come egli tendesse soprattutto ad eliminare gli elementi del mirabile inverosimile e stravagante (com’egli diceva), gli «spropositi» che urtavano nelle sue esigenze di razionalità e di chiarezza e di verità, e cosí toglieva la statua parlante del commendatore e cercava di dare una giustificazione logica e morale al fulmine che colpiva il «dissoluto». Ma si vede anche come a queste esigenze[1] ancora piuttosto generiche (anche se legate ad un istintivo bisogno del Goldoni) non corrisponda una vera trasformazione profonda quanto piuttosto una regolarizzazione esteriore che non portava uno spirito nuovo in questa fiacca tragedia, compromesso fra il gusto dei letterati e quello del popolo.

E ad osservare il linguaggio, gli endecasillabi di queste tragedie giovanili, si noterà come il Goldoni, incerto fra forme auliche e quella lingua corrente a cui lo portava il suo istinto, finisse per mantenere in vita vecchi moduli secenteschi di eloquenza drammatica con le tipiche tirate ad effetto[2], con i dialoghi continuamente interrotti da una falsa concitazione appoggiata ad equivoci fra personaggi che non si intendono[3], con le sequenze di interrogazioni retoriche o di monologhi intrecciati di personaggi che declamano indipendentemente l’uno dall’altro sulla scena.

E non parliamo delle vere e proprie cadute di un linguaggio mal dominato, delle zeppe grossolane per tenere in piedi versi spesso assai approssimativi nella loro misura metrica, delle esagerazioni e delle iperboli che spesso il Goldoni addirittura accentua ed accumula, come le esclamazioni vuotamente disperate o le espressioni di pura violenza verbale, per supplire e alla diminuita presenza di espedienti scenografici e di espedienti del «mirabile» secentesco e alla intima mancanza di una vera ispirazione tragica.

E la stessa volontà di giustificazione moralistica degli avvenimenti, se indica una adesione alle nuove esigenze del teatro settecentesco, dà luogo sempre a inutili declamazioni accentuate e prolungate poi da un certo gusto di arringa avvocatesca che, legata alla consuetudine dell’avvocatino Goldoni, non mancherà di aduggiare anche molte parti delle prime commedie e complica questo linguaggio fra declamatorio e usuale, dietro al quale sta una cultura letterariamente poco profonda, appunto piú da dilettante e da avvocato che non da vero letterato e perciò tanto piú incerta ed ingenua, anche quando vuole sfoggiare raffinatezze e latinismi di derivazioni forense e scolastica. Tanto che – seppure dal Belisario al Giustino si possa indicare un certo progresso nel dominio dell’azione e nella caratterizzazione dei personaggi (e il ricordo di questa ultima tragedia resta piú vivo e chiaro nella memoria del lettore) – in queste stanche e verbose tragedie si possono cogliere, oltre le indicazioni di una generica volontà di regolarizzazione già notata, spunti piú vivi proprio là dove il Goldoni delinea personaggi laterali e meno tragicamente solenni, situazioni di vita comune, affetti piú semplici, a cui la simpatia dell’autore può rivolgersi piú che ai personaggi storici e romanzeschi, nella costruzione dei quali sempre (anche nelle tragedie romanzesche del periodo ’53-58) il Goldoni è stato singolarmente incerto e stonato.

Come si può notare nel personaggio idillico e bonario di Artandro nella Griselda[4] o, meglio, in quello di Ergasto, padre di Giustino, con le sue preoccupazioni di buon vecchio saggio e pacifico, tediato dalle guerre e dagli onori del figlio, e magari curiosamente attento (come un buon padre nelle commedie) a che Giustino non si trattenga troppo da solo con Eufemia:

Guidala tu, ma tosto

ritorna poi (non vo’ che di soverchio

colla donna sen stia. Chi sa? Siam fatti

d’una fragile pasta).[5]

Battuta interessante a mostrare come il Goldoni per ravvivare le sue tragedie, mentre riduceva il buffonesco tipico degli scenari e della commedia eroicomica, tendesse a sostituirvi il chiaroscuro di una lieve, bonaria comicità che era poi il tono in cui si traduceva, in quelle opere mancate, il primo accenno della sua poesia della vita semplice e saggia, del suo sorriso di simpatia e di umorismo.

Sicché i motivi piú interessanti del suo noviziato teatrale non si troveranno in queste tragedie e neppure nei «melodrammi seri» (Gustavo I re di Svezia, Oronte re de’ Sciti, Statira), deboli imitazioni di Zeno e Metastasio, prive della finezza metastasiana e del senso poetico della trepidazione di quel grande maestro[6], quanto nei melodrammi giocosi e tanto meglio negli «intermezzi giocosi» per musica. È soprattutto in questi (meglio che nei veri e propri melodrammi giocosi di questi anni: Aristide, La fondazione di Venezia, Lugrezia Romana in Gostantinopoli, l’ultimo dei quali è davvero singolare per l’insolita concessione alla scurrilità ed al semplice buffonesco) che si rivela meglio la vera natura goldoniana, liberi come sono dall’impaccio della regolarizzazione di precedenti componimenti o scenari, adatti nelle loro brevi proporzioni a prove meno rischiose e piú libere.

I primi di questi intermezzi (La Pelarina e Il buon vecchio, andato perduto) risalgono ad anni precedenti all’incontro del Goldoni con i «comici», al periodo di Feltre (1729-1730) – e al 1732 appartiene il terzo «intermezzo», Il gondoliere veneziano –: ma anche per questi «intermezzi» il loro sviluppo maggiore coincide con gli anni 1734-1736 ed è in questi anni che essi, in mezzo ai melodrammi seri e alle tragedie, costituiscono l’esperienza piú interessante e valida sulla via della commedia goldoniana.

In questi «intermezzi» il Goldoni si avvicina per la prima volta ad un materiale ben diverso da quello delle tragedie eroiche e storiche, ad un materiale vivo nella vita contemporanea e nella sua esperienza personale anche se inizialmente indicatogli da una recente tradizione letteraria italiana: la tradizione della gustosa e sapida satira del mondo del teatro musicale che conosciamo nella Dirindina del Gigli (1712) o nell’Impresario delle Canarie del Metastasio (1724), arricchita in lui da quella localizzazione veneziana presente sin nella Pelarina[7] e meglio precisata nel Gondoliere veneziano ossia gli sdegni amorosi, in cui compare il dialetto veneziano come unica lingua dei due personaggi (Buleghin, «barcariol», e Bettina, «putta da campiello») e in cui al mondo del teatro musicale si sostituisce il piccolo mondo popolare veneziano espresso nel dialogare già cosí saporito e piacevole, negli acuti e profondi accenni ad una realtà precisa e gustata nella sua minuta concretezza, nella sua conferma di vitalità (anche se qui molto illeggiadrita in tono comico-idillico): e che sembra costituire la prima lieve incisione di un ritmo che il Goldoni andrà sempre piú approfondendo e trasvalorando dal rilievo del particolare a poetica simpatia per una vita che troverà espressione tanto piú tardi nel Campiello o nelle Baruffe chiozzotte. E se nella Pupilla e nella Birba prevale l’impegno nel passare da un disegno di dialoghetto ad un intreccio piú complesso servendosi di espedienti farseschi (il travestimento da accattoni e il giuoco dei vari dialetti), gli elementi «veneziani» (gli accattoni di piazza San Marco e la canzoncina dell’«orbetta»), che già attraggono l’attenzione del giovane scrittore nella Birba, si fanno anche piú precisi e suggestivi in quegli ultimi tre intermezzi, Monsieur Petiton, La bottega da caffè, l’Amante cabala, che meglio rivelano anche la maggior sicurezza di movimento e il rilievo delle figurine nitide, compiute ed agili in confronto alla rigidezza della Pelarina.

Si noti cosí all’inizio di Monsieur Petiton la cura di precisione della scena e dei personaggi in un «interno» coerente al tono di «baruffa» e di «pettegolezzo» veneziano della commediola:

Camera con letto disfatto, tavolino e sedie. Graziosa in veste da camera e scuffia da notte, Petronio in collare, monsú Petiton alla francese, poi Lindora in veste e zendal alla veneziana;

e si noti nella Bottega da caffè (specie nel suo inizio cosí sicuro fra il discorsetto di Narciso caffettiere ai suoi garzoni e il dialogo fra Narciso e Dorilla) la capacità di dar vita briosa (anche se piú pittoresca che poetica, piú leggiadra e piacevole che pienamente umoristica) a figurette tutte sapide di vita contemporanea in una scena precisa e con una loro espressione coerente alla loro individuazione sommaria, ma assai incisiva (il caffettiere con la sua disinvoltura e la sua saggezza poco scrupolosa, l’«avventuriera onesta» in cerca di marito, ma non restia a «pelare» qualche pretendente meno furbo, il «cortesan» Zanetto, sciocco e spendereccio, spaccone e pauroso) e ad un comune fondo di vitalità comica che si esprime assai efficacemente nell’abilità del parlato fra recitativi in settenari ed endecasillabi e le ariette, nel buon accordo fra dialogo ed interventi di una terza voce (i comici interventi di Narciso ad interrompere il dialogo fra Dorilla e Zanetto quando quest’ultimo si fa troppo audace), nel buon taglio delle piccole scene e nella soluzione di ritmo veloce del finale, quando Narciso si libera di Zanetto, che rivuole i doni fatti a Dorilla, annunciandogli il ritorno di un falso rivale combattivo e manesco («el mustachi») che lo ha già prima atterrito:

Zanetto:

Vôi l’anello e sie zecchini,

vôi la scatola e i manini,

e i quaranta ducatelli

che anca ti ti m’a magnà.

Narciso:

Obbligato in verità.

Dorilla:

Cosa dice?

Narciso:

Che ’l ve lassa

quell’anello, quei zecchini,

quella scatola e i manini,

che cortese il v’à donà.

Zanetto:

No, in malora.

Dorilla:

Obbligatissima.

Zanetto:

No, ghe digo.

Dorilla:

Devotissima.

Zanetto:

No ghe i dono, siora no.

Dorilla e Narciso (a due):

Per suo amor li goderò.

Zanetto:

Siora, vôi la roba mia.

Narciso:

El mustachi, scampé via.

Zanetto:

Dove xelo?

Narciso:

Eccolo qua.

Zanetto:

Scampo, corro.

Narciso e Dorilla:

Presto, va.[8]

Ma ancor piú interessante per la ricchezza di elementi di precisazione ambientale come spia del gusto goldoniano teso alla poesia, al sorriso della vita quotidiana, dell’esperienza comune e concreta, è l’Amante cabala, in cui nell’appoggio farsesco dell’amante imbroglione e dei suoi travestimenti si svolge, specie nella prima parte, in una calle con balconi (e poi in un negozio di stoffe nella via della Merceria) una di quelle scene di pettegolezzo che, con forza tanto piú elastica e tanto minor leggiadria pittoresca, torneranno nelle Massere o nelle Donne de casa soa. Cosí in questo pezzo di dialogo fra Filiberto e Catina che sparla della rivale:

Catina:

La xe una vardabasso

che sa far con maniera i fatti soi.

Quando viveva ancora so mario,

l’aveva l’amicizia

d’un certo sior tenente

ricco, ma ricco... Orsú, no vôi dir niente.

Filiberto:

(Oh questa si ch’è bella!

Ancor questa è prudente come quella.)

Catina:

Se un pochetto alla longa

culia vu la pratichessi,

de che taggia la xe cognosceressi.

Filiberto:

E a vardarla in tel viso...

Catina:

Oh, oh, cossa credeu,

che quel bianco e quel rosso

sia color natural? Oh poveretto!

L’al gh’à alto tre dea.

Filiberto:

Cossa?

Catina:

El sbeletto.

E po la xe cattiva come el diavolo:

ogni otto dí la scambia el servitor.

Un zorno col sartor

la s’à taccà a parole, e lu el gh’à ditto:

tasi, che ti è una brutta...

Filiberto:

Zitto, zitto

Lassemo andar custia, tendemo a nu.

Se la se contentasse...

Catina:

El barcariol

Ghe ne sa dir de belle: el me ne conta

tante che fa paura. El dixe un zorno:

sí ben, la mia parona fa la casta,

e pur gieri de notte...

Filiberto:

Basta, basta.[9]

Piú tardi questa esperienza si farà laterale rispetto allo svolgimento della commedia vera e propria, anche se va fin d’ora ricordata l’importanza che l’attività dei melodrammi giocosi[10] ebbe per varie ragioni: come sviluppo di temi secondari e meno sicuri (temi campestri e di vita contadina, motivi fiabeschi[11]), come esercizio piú libero e meno impegnativo di macchiette e caricature (specie nella pittura comica dei buffi rappresentanti del mondo nobiliare come nel Conte Chicchera o nel Conte Caramella) e soprattutto come esperienza di linguaggio musicale (specie nel periodo fra ’50 e ’60) sollecitato dalle forme tipiche del libretto per musica buffa e dalla collaborazione viva e continua con musicisti come il Galuppi.


1 Meglio chiarite a posteriori nella prefazione all’edizione Paperini del ’54, in cui egli ci parla di questo tentativo giovanile e condanna con estrema severità lo scenario di cui si era servito.

2 Ad esempio nel Belisario quella sugli occhi, Atto Iv, sc. 4.

3 Cfr., sempre nel Belisario, le battute fra il protagonista e Giustiniano nell’Atto III, sc. 12.

4 Si legga il suo monologo nell’Atto II, sc. 3, in cui il vecchio pastore, in uno schema arcadico pastorale, fa vivere la sua goldoniana letizia di una vita tranquilla, di una vecchiaia sana e felice se non vi fosse la preoccupazione per il figlio («io son quasi felice, ma vi è il quasi...»).

5 Giustino, Atto i, sc. 2.

6 Meglio che in questi fiacchissimi melodrammi, l’insegnamento del Metastasio appare nelle opere del periodo 1753-1758, cioè in questi esercizi piú letterari il cui frutto – quanto a migliore sicurezza nel disegno di intimi ondeggiamenti, di patetici tormenti – si ha negli Innamorati del ’59. Per Metastasio rinvio al mio volume L’Arcadia e il Metastasio cit.

7 Prima intitolata La buona cantatrice e poi rimaneggiata col nuovo titolo da un plagiatore, il Gori, da cui il Goldoni la riprese e la pubblicò senz’altro nel 1753.

8 Opere, ed. cit., vol. x, Milano 1951, p. 190.

9 Opere, ed. cit., vol. x, pp. 202-203.

10 Il Goldoni ne scrisse moltissimi ed ora occupano i voll. x e xi e parte del xii delle Opere nell’ed. cit.

11 Notevole è Il paese della cuccagna, ma piú del fiabesco il Goldoni vi esprime un comico senso di beata fruizione senza limiti dei piú innocenti piaceri: interminabili pranzi e saporiti sonni.